Susanna e i vecchioni

Ambito veneziano

Susanna e i vecchioni

Period

XVII sec.

Subject

Sacro

Technique

olio su tela

Size

cm 110×160

Other information:
Collection (Donazione Marcianò Agostinelli);
Ownership (Comune di Reggio Calabria);
Inventory (72740)

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Le tre figure protagoniste sono rappresentate in un contesto dall’architettura neoclassica, in prossimità di una fonte. In primo piano figura Susanna, la cui nudità è coperta da dei panneggi bianchi e rossi, in procinto di immergere il piede destro nell’acqua. Alle sue spalle i vecchioni incombono, uno di loro indica verso destra. In basso a sinistra si osserva una fontana a forma di putto che abbraccia una creatura marina, dalle loro bocche fuoriescono getti d’acqua.

Personaggi: Susanna, vecchioni

La storia di Susanna fa parte del libro di Daniele al capitolo XIII, ed è un tema che simboleggia il trionfo dell’innocenza, la Chiesa minacciata, o anche un’occasione per raffigurare il nudo femminile. Il momento è quello precedente all’assalto dei due vecchioni che si avvicinano a lei per importunarla. Susanna, bella e pia ragazza, educata secondo la legge di Mosè, viene notata da due vecchi che frequentano la casa di suo marito mentre fa il bagno nel suo giardino. Il suo corpo nudo è raffigurato sul bordo della vasca nella quale sta ancora immergendo un piede. Costoro sono appena stati nominati giudici e, infiammati di lussuria, si fanno sotto con proposte infami, minacciando di accusarla presso il marito di averla sorpresa con un giovane amante se non si concede a loro. Al rifiuto di Susanna l’accusano pubblicamente di adulterio. Portata davanti al tribunale viene riconosciuta colpevole e condannata a morte mediante lapidazione, ma a questo punto si fa avanti Daniele che pronuncia le seguenti parole:

“Avete condannato a morte una figlia d’Israele senza indagare la verità! Tornate al tribunale, perché costoro hanno deposto il falso contro di lei”.

La reputazione di Susanna viene restituita all’onore e la fama di Daniele cresce fra il popolo.

La scena, priva di ogni elemento secondario, è ambientata nei pressi della vasca decorata con un putto posto su un basamento e con alle spalle delle architetture. Presenta caratteri di luminosità cromatica e fluidità narrativa che ne consentono l’inquadramento tra la fine del XVII sec. e gli inizi del XVIII, in un ambito artistico permeato di esperienze veronesiane e fiamminghe, con influenze della scuola veneta, Tiziano, Tintoretto, Veronese. La pittura veneta del Settecento rappresenta il grande proscenio dell’arte figurativa europea. I temi di carattere religioso vengono raffigurati in una chiave laica con centralità dell’uomo e in particolare della donna e il paesaggio vengono coniugati in un’ambientazione spesso arcadica o neoclassica.

In questo dipinto si attesta uno stile sofisticato e iperbolico, in un senso tipicamente settecentesco; le scene create evocano un mondo fittizio, reso da una tavolozza cromaticamente squillante e da una luce fredda e irreale, creata usando un tono argenteo che si riflette dagli oggetti come dalle figure, che perdono ogni consistenza plastica.

Il Geraci ha evidenziato la correlazione con la cifra stilistica di Denijs Calvaert ritenendolo il probabile autore del dipinto, poiché egli dovette orientarsi verso lo studio dell’arte veneta e parmense coniugata ad un realismo di stampo nordico. Bellissimi sono gli accostamenti di colori che creano una purezza nella loro gamma luminosissima.

Denijs Calvaert, detto in Italia Dionisio Fiammingo (Anversa, 1540 – Bologna, 1619), è stato un pittore fiammingo, della corrente tardo-manierista.

Dopo aver studiato con Christiaen van Queecborn pittura di paesaggio ad Anversa, dove è documentato col nome di Calvaert, si stabilì a Bologna, perfezionandosi nel nudo con Prospero Fontana tanto da abbandonare la sua maniera fiamminga per quella italiana. A Roma, verso il 1560, collaborò con Lorenzo Sabbatini nelle decorazioni vaticane e studiò l’opera di Raffaello. Tornato a Bologna nel 1574, vi aprì una scuola che vantò allievi prestigiosi come Guido Reni, Francesco Albani e il Domenichino. Benché rivaleggiasse con l’Accademia dei Carracci, era talmente rispettato che alla sua morte Ludovico Carracci curò l’allestimento dei suoi funerali nella chiesa dei Serviti e accolse nell’Accademia tutti i suoi allievi.

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