Posto ad un'altitudine di 527 metri, su una roccia collocata nel cuore della fiumara Amendolea che ha alle spalle l’imponente Monte Cavallo, è l'antico borgo ellenofono di Roghudi, il cui nome deriva dal greco "rogòdes", pieno di crepacci o da "rhekhodes", aspro. Le prime origini di questo paesino ci riportano al 1050 quale piccola porzione di una più ampia area grecanica. Tra l'XI e il XII secolo fu soggetto al controllo dei Bova e, successivamente, finì sotto l'influenza dello Stato dell'Amendolea fino al 1806. Anche a causa della collocazione piuttosto impervia, Roghudi ha patito molto spesso nel corso dei secoli l'imperversare della natura. Nel 1971 e 1973 due violente alluvioni, che provocarono morti e dispersi, danneggiando numerose abitazioni, obbligarono i circa 1600 abitanti (una gran parte di essi occupò la nuova e odierna Roghudi, edificata più a valle) ad abbandonare il paese che così iniziò la sua nuova e affascinante esistenza di borgo "fantasma".
Misteri e leggende
Oggi Roghudi Vecchio si offre ai visitatori più curiosi e attenti, in particolare agli amanti dei luoghi avvolti nel mistero e dei paesaggi naturali incontaminati. Questo l'affresco dipinto dalla storia, dall'uomo e dalla natura a Roghudi Vecchio e che oggi è rappresentato dai resti delle casette costruite a picco sui precipizi, dalle strette viuzze, dai magici scorci e da una piccola traccia di religiosità racchiusa nella chiesetta di San Nicola, oggetto di recente restauro. Un luogo fermo nel tempo ma le cui anime più profonde sembrano ancora parlare al visitatore. Una di queste, secondo la più nota leggenda, intona di notte il lamento incessante dei bambini che hanno vissuto questo posto. Sono quelli andati incontro ad un triste destino, precipitando nei tanti crepacci che caratterizzano l'abitato. Non è un caso, infatti, che fosse un'usanza consolidata a Roghudi quella di fissare grossi chiodi ai muri delle abitazioni a cui le donne legavano dalle caviglie i loro bambini, proprio per evitare il ripetersi di sciagure simili. Altre significative suggestioni sono quelle legate alla vicina frazione di Ghorio di Roghudi, oggi abbandonata. E' qui che è possibile osservare delle particolari formazioni rocciose chiamate "Rocca tu Dracu" (Rocca del Drago) e "Caldaie del Latte". Quest'ultime rappresenterebbero, secondo la tradizione popolare, la fonte di nutrimento del drago il quale, tra l'altro, sarebbe a sua volta il temibile custode di un grande e inestimabile tesoro.
Le “Narade”
Di natura “passionale”, invece, la leggenda che avvolge contrada Ghalipò, luogo popolato da donne (le “Narade” o “Anarade”) con i piedi a forma di zoccolo di mulo. Esseri inquietanti che avevano come obiettivo quello di conquistare carnalmente gli uomini del paese, rappresentando dunque una minaccia per le donne che venivano condotte con l’inganno al fiume e uccise. E per fronteggiare questo pericolo vennero anche costruiti tre accessi in tre diversi punti del paese. Tale leggenda, secondo alcune fonti, potrebbe essere ricondotta al mito delle Nereidi, creature immortali e che affiancavano il dio del mare Poseidone, oppure a quello delle Naiadi, le ninfe delle acque dolci. Ma al di là delle possibili assonanze tra mitologia greca e cultura grecanica, va ricordato che in quest'ultima abbondano i richiami a universi popolati da creature mostruose o entità spirituali.
Il grecanico
Testimonianza ancora viva delle fortissime influenze culturali e contaminazioni linguistiche presenti in questo territorio, complici l'impronta ellenistico-bizantina e il legame più diretto con il greco parlato nella Magna Grecia, è il Greco di Calabria o grecanico. Particolare idioma utilizzato in tutta la Calabria meridionale almeno fino al XVI secolo e che contiene anche alcune parole riconducibili addirittura al periodo dorico e dunque del tutto sconosciute al greco moderno. Questa lingua oggi è ancora conosciuta da nuclei piccolissimi di abitanti e si sta cercando di valorizzarla e tramandarla attraverso iniziative promosse da associazioni e dalla locale comunità linguistica greca.
La lavorazione della ginestra
Arte antichissima a Roghudi, un tempo tramandata di madre in figlia, era la lavorazione della ginestra. Una pratica che oggi viene custodita da poche persone ma che in passato veniva utilizzata per realizzare tessuti e vestiti. I fusti della pianta, raccolti generalmente nel mese d’agosto, venivano dapprima macerati, resi flessibili e poi ridotti in matasse. Al telaio e all’abilità delle tessitrici era infine affidata la trasformazione della ruvida tela in utili capi o tessuti.