Di difficile collocazione nel panorama linguistico italiano, il dialetto reggino, denominato “riggitanu” fonde nella sua parlata tradizionale elementi di vari ceppi. Infatti, il reggino si è formato nei secoli dalla fusione di vari linguaggi parlati nella così detta Calabria Citra, a cominciare dal greco dei primi coloni, in seguito rafforzato dalla secolare presenza nell'alto medioevo dei bizantini, continuando col latino, e arrivando a tante eredità linguistiche dovute alle continue dominazioni, come lo spagnolo e il francese.
Dal greco al latino, passando per il grecanico ed il siciliano, l’antica parlata della città di Reggio, rappresenta quindi una vera e propria koinè dello Stretto, da qui una marcata verosimiglianza del dialetto reggino con il siciliano, più che con i dialetti delle cosiddette altre due Calabrie.
I vari prestiti hanno dato vita ad una lingua in grado di assorbire e trasformare tutte le influenze storiche, anche quelle delle innumerevoli dominazioni straniere subite.
Seppur accertata la latinizzazione forzata della lingua ufficiale della chiesa cattolica romana da parte dei Franchi, bisogna riconoscere che fino all’anno mille la lingua ufficiale di Reggio fu il greco, data che va di diversi secoli posticipata per il territorio attorno a Reggio (basti pensare che nel XVII secolo il greco si parla ancora anche in diversi borghi della Piana di Gioia Tauro e fino al XVIII nei comuni limitrofi a Reggio, come Cardeto, per arrivare alla continuità moderna dell’area grecanica).
Le caratteristiche del dialetto
I moderni studi di linguistica contemporanea, firmati da Giacomo Devoto e Gabriella Giacomelli raccolti ne I dialetti delle regioni d’Italia, un lavoro monumentale uscito nel 1972, a proposito della lingua parlata a Reggio, scrivono che essa è: “una propaggine siciliana che esce dalla Sicilia per estendersi attraverso lo stretto di Messina nella Calabria meridionale, più o meno in connessione con la provincia di Reggio“.
In effetti, il dialetto reggino, specie quello parlato all’interno della città e con dovute differenze nell’area calabrese dello Stretto di Messina che va da Scilla fino all’area grecanica di Bova, si distingue nettamente dalle altre parlate calabresi mostrando grande affinità con il siciliano e nello specifico con il dialetto della dirimpettaia Messina.
Questo per due ragioni che sono alla base dello studio della moderna linguistica.
La prima è la legge del continuità dialettale, più due aree dialettali sono vicine, maggiore è la loro mescolanza e i reciproci prestiti. Messina è più vicina a Reggio di quanto non lo sia, a Cosenza o a Catanzaro. La seconda ha più natura storica; visto che Reggio è stata sempre una città a vocazione marinara in una regione perlopiù montuosa, si pensi che gran parte della provincia reggina è dominata geograficamente dall’Aspromonte.
Questo ha favorito l’ orientamento dell’antica Reghion verso la Sicilia sin dall’antichità, soprattutto verso Messina. I documenti storici mettono in risalto i millenari e ininterrotti rapporti tra le due sponde dello Stretto (soprattutto quando, con la conquista normanna, il ruolo egemone nello Stretto passò da Reggio alla città peloritana) perfino nei momenti di divisione politica tra Calabria e Sicilia, ad esempio quando la Sicilia era in mano araba e la Calabria in quella bizantina, oppure quando l’isola era sotto la dominazione aragonese e Reggio sotto il potere angioino.
Dall’oralità alla scrittura
Bisogna arrivare al tardo medioevo per segnalare l’apparizione dei i primi testi letterari riconducibili ad una lingua volgare vicina al reggino-calabrese.
Su questo ritardo va segnalata la causa principale, la provincia reggina non ha avuto nel medioevo il fenomeno dei Comuni ai quali si sono spesso legate le vicende di poeti e prosatori in volgare, quanto più un proliferare di studiosi e chierici atti invece a scrivere e trascrivere opere in latino.
Come è noto il latino è la lingua dei dotti, delle corti, del potere ecclesiastico e politico, quindi il volgare reggino-calabrese è stato a lungo escluso dal panorama della scrittura.
Come ha ricordato il filosofo e storico della filosofia Francesco Fiorentino, ancora nel Cinquecento e nel Seicento: “tutti gli scrittori dell’Italia meridionale valgono più come latinisti che come scrittori italiani. Si direbbe che ci fossero ancora popoli latini, con l’innesto greco, anziché popoli nuovi, parlanti in lingua moderna”.
Un lessico latino e un modo di pensare greco
La pluralità delle radici della lingua reggina trova inoltre riscontro in un lessico che seppur in prevalenza proveniente dal latino, registra numerose parole greche sopravvissute, mantenendo la morfologia della koinè greca (diffusa al tempo di Alessandro il Grande e successivamente tramite i Vangeli).
Alcune caratteristiche sintattico-morfologiche come il modo di formare il congiuntivo (Es. “bisogna che io vada” che diventa in greco “echo na pao”, nel dialetto reggino si esprime con “aju mi vaiu” ovvero come in greco “devo andare” con l’uso della particella “mi” che sostituisce il “na” greco), o ancora l'assenza dell'infinito (nella forma originale del dialetto conservata principalmente nei piccoli borghi intorno a Reggio), l'uso dell'imperfetto al posto del condizionale, l'assenza del passato prossimo sostituito sempre dal passato remoto, sono tutte caratteristiche che coincidono con la koinè greca (e con il greco moderno) segno questo di un’evidente persistenza della lingua greca nel territorio reggino fino ad epoche recenti.
Dante e la lingua dello Stretto
Dante stesso, che nel De vulgari eloquentia (1. I) pur facendo rapido accenno ai vari dialetti e alla lingua dei “Calavresi”, non fa menzione esplicita alla presenza di un dialetto o vernacolo reggino, anche se proprio in questa lingua fa pronunciare nell’Inferno al suo Ulisse i famosi versi:
"Fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza".